“La malerba”

25 

La morte de Luna la somara

«Me sa ch’è morta Luna la somara…»,
disse er somaro all’amichetta nera.
«‘sto grosso movimento, Giulia cara,
me fa capi’ che ‘sta notizia è vera.»

«Annamo.» – disse Giulia – «Annamo su,
annamo a saluta’ quell’amiatina
prima che questa non ce ragli più
pe’ dicce che s’è fatta già matina.»

Così fu fatto e dopo ave’ sfrociato,
lemme lemme salirono er sentiero
che dalla valle sale su dal lato
in dove sta de Giano il gran maniero.

Quanno furono a vista de la stalla,
dove da mesi Luna tribbulava

con recchie dritte e più co’ l’occhi a palla,
s’accorsero de quella come stava.

La viddero appiccata pe’ ‘na zampa
a ‘na gru de quer camion funerario.
Un omo stava ritto su ‘na rampa
ad azionar quer mezzo temerario.

La testa de la morta a penzoloni
je toccava la panza su la destra;
le zampe dietro come du’ passoni
steveno tese come ‘na balestra.

La corda, ch’era attaccata all’arganello,
facea girar Lunetta su se stessa
mentre che ‘na cornacchia dal cancello
gracitava in latino la sua messa.

Abibi lo stallone stette fermo,
umidi eran l’occhi e voce rotta.
A Giulia disse: «Ora ti confermo
che Luna adesso è proprio morta, morta.»

Poi aggiunse fiero questa sua sentenza:
«La crudeltà dell’omo n’ è fatto raro…
e dico a nome de la trasparenza
ch’è mejo ‘n esse’ omo ma… somaro.»



Inno alla cacca

 

dopo i cinquant’anni…
doventa… mmerda

Poemetto
bucolico, filosofico, scurrileggiante
e
fedriano
ad usum populi nostri

vedi famosissimo detto latino
Ego sum ego vos flocci facio
che tradotto in italiano significa
Io so’ io e voi… non siete un cazzo!

di
Epicuri De Grege Porcus

_______________________

Pien’è maturità a cinquant’anni,
quindi ch’il festeggiar di certo puossi.
Ma tanti a quest’età son i malanni,
a cominciar da i dolori all’ossi.

Seguono l’occhi, che sanza l’occhiali
certo non poi veder come che prima.
Di poi son forti i rodimenti anali,
ch’aumentan tosto al sol variar di clima.

Il lavoro doventa più pesante,
la famiglia non è ch’aiuta tanto…
Il marito diventa petulante,
il cervello e lo cor t’appare affranto.

Allora coi pensieri torni indietro,
vai dritta con la mente al tuo passato,
t’affidi tosto allo “pallon di vetro”
che del futuro di dirà lo stato.

Ti fai predir s’avrai tanto dolore,
dei soldi, del lavoro, dei malanni,
se poi c’avrai un altro gross’amore
come quello goduto a diciott’anni.

“La palla trasparente” resta muta,
solo d’arcobaleno è colorata.
Emette un gran sospiro all’insaputa
per tutti l’anni di vita sprecata.

Poi dice con vocione quasi umano
la luce colorata a intermittenza:
«Anche se lo mio dir parrotti strano,
d’adesso in poi ci vuol tanta pazienza.

Se lo passato è stato bello assai
e del presente non farai ammenda,
lo futuro conoscer non potrai
perché coperto dall’umana “mmerda”.

Cerca di non pestarla se potrai,
visto che l’omo umano caca tanto.
Un altro amore grande non avrai…
forse dalla famiglia avrai gran vanto.

Non sempre chi ti bacia e t’accarezza
ti fa un piacere, t’ama con strapazzo.
Lo fa perché lo sente con certezza,
presto dirà ch’è lui… e tu? ‘n sei ‘n cazzo.

Così è la vita dopo cinquant’anni…
Tutti so furbi, come fa il cuculo.
Oggi vanno di moda solo inganni,
così chi è lesto… “te lo mette al culo”.»

E come il pugil gonfio di cazzotti
con l’occhio ch’abbottato ner diventa
sorride anche se pieno di cerotti,
così fai tu e dopo la tormenta
alzi lo sguardo al cielo e inebetita
te metti a strilla’ forte: “So’ contenta!”

Quindi la conclusion di certo è questa:
non puossi per la donna sfortunata,
specie se dell’amor poco le resta,
usare le parole: “So’ sfigata.”

La “sfiga” è un derivato portoghese,
tanto che “figa” a Rio porta fortuna.
Sinonimo di jella è in quel paese…
Da noi se dice pure ch’è sfortuna.

“Merda” può usarsi pure in altri posti.
Quando che lo destin nostro è cattivo
si dice pure: “A, mo so cazzi tosti…!”
per dire che quel fatto è negativo.

Per questo segui ‘st’altra favoletta,
concetto sano far capir ti voglio.
Non farti chiuder mai nella stanzetta
da chi con dito in piatto versa l’oglio.

Pare che un giorno freddo di gennaio,
con vento, le saette, il temporale,
un piccolo uccellin, certo non gaio,
cadde da un ramo senza farsi male.

‘na mucca, che da poco era passata,
pria di correr, vista la tempesta,
avea lasciato a terra ‘na cacata
in dove stava, lì, nella foresta.

La merda calda calda era fumante
e l’uccellin, uscendo dal suo nido
senza li panni e manco le mutande,
caddeci dentro in men che non vi dico.

Li schizzi lo coprirno fino al collo
di quella malta tanto appiccicosa
e tutto intero si ritrovò a mollo
della pastella verde e limacciosa.

Russò tutta la notte in quello stato,
tanto che s’addormì a bocca aperta
come che pargoletto in verde prato
di Maggio sogna senza la coperta.

Il sole era già alto e i temporali
avean cambiato zona in quel momento.
E mentre si stirava, zampe ed ali,
alzò la testa e cinguettò contento.

Cantò e ricantò quel poveraccio,
tutto sporco “de cacca” fino all’occhi.
Un uomo se n’accorse e con lo straccio
lo ripulì, gli tolse li pidocchi.

Gli soffiò per ridargli un po’ di fiato,
gli disse che c’aveva la “commenda”,
datagli fresca fresca dallo stato
per salva’ chi è cascato nella “mmerda”.

Così fu fatto, quindi quell’uccello
lo ringraziò con voce sacrosanta.
Bevve un po’ d’acqua al solito ruscello
e volò via di corsa su ‘na pianta.

«So’ libero…» diceva «So’ pulito…»,
fischiettò come fosse un usignolo.
«Posso sali’ diritto all’infinito.
So’ uscito dalla cacca senza dolo.»

Lasciò “il buonista” solo senza giacca,
battette l’ali in segno di gran festa
e visto ch’era fora da la cacca
gli fece una picchiata su la testa.

Virò poi a destra, come un aviatore,
si posò s’un rametto senza foje,
ma sotto c’era fermo un cacciatore
che l’ammazzo, senza tante doje.

Così volò diritto in Paradiso
pensando alla gran merda de la vacca,
a quel “cazzin” dell’uomo col sorriso
che pulito l’avea con propria giacca.

MORALE:
“S’anco sommersa sei di tanta cacca,
non starnazzar, non essere ribelle.
Solo dentro la merda de la vacca
salvi le chiappe tue oppur la pelle.”



Er somaro e l’effetto “eclisse”

In occasione dell’eclisse di sole del 10 agosto 2000

Er cielo, ieri, ha pianto tante stelle
ner giorno de quer po’ro san Lorenzo.
Un somaro, ‘npaurito ner vedelle,
chiese all’amico spiegazioni e senso.

Quello ragliò, sfrociò, e con pazienza
spiegò dove lo sciame se formava;
che tutti l’anni, in quella ricorrenza,
l’omo sperava a quello che pensava.

«Anch’io in quer mentre ho fatto un mio pensiero»,
aggiunse quella bestia somarina.
«Ma… lascia perde’, tanto nun è vero!»,
e s’accasciò dove che stava prima.

Immaginò ‘na somaretta arzilla
che l’incitava de sartaje addosso,
ma mentre che la stava p’acchiappalla
fu distratto, dar primo, con un morso.

«Che c’è? Che voi?», e fece ‘no sbadiglio,
«C’hai fatto? C’hai rivisto? Ch’è successo?»
E con lo sguardo fisso, con cipiglio,
dovette risenti’ l’amico… fesso.

«Svejete, apri l’occhi… C’ho paura!»,
con voce tremolante disse allora.
«Che pensi… s’è cambiata la natura?
S’è fatta notte… e nun me pare l’ora.»

«Nun te preoccupa’, statte tranquillo!»,
arispose er somaro dormiglione.
«‘un è gnente!…», e in segno d’abbonirlo
lo leccò du’, tre volte… sur groppone.

Poi aggiunse, con la voce dorce e fina
e la delicatezza d’un cerbiatto,
li gesti boni e tenera moina…
lo sguardo che ‘n somaro n’ ha mai fatto:

«Io vojo dimostra’, ar caro amico,
ch’ignora ‘sto fenomeno d’eclisse,
sotto a ‘na pianta, qui… sotto a ‘sto fico,
quant’è ‘gnorante… e come male visse.

Ecco, mettemo che tu fossi er monno
e io la luna che se trova in mezzo,
tra l’astro che fa luce a tutto tonno
e te… che t’ariscalli da ‘n ber pezzo.

Se con ‘no zompo adesso te sto addosso,
t’eclisso… nei confronti de lo sole
che, nello stesso tempo, nun s’è mosso,
e vedi l’ombra, che la luna vole.»

Fatto così er celeste allineamento
e approfittanno de quer bujo australe,
fece strilla’ la terra… con lamento:
«Aiuto, aiuto… Me fa tanto male!»

«Tu, come amico te sei presentato»,
con voce fioca e bassa quello disse.
«Te vedo più ‘n somaro assatanato
che un conoscitore de l’eclisse!»

«Devi sape’ che anche tra l’umani
questi comportamenti… somarini
non vengono più detti… atti strani
m’addirittura… amori genuini!»

«Essere boni, oggi, è de gran moda!…
Tutti so’ furbi, come fa il cuculo…
Pe’ questo l’omo ‘un c’ha più la coda,
così chi è lesto te lo mette ar ……!»

Questa fu la risposta de quer saggio,
dopo che s’era fatto anche l’amico!
Se sdraiò, tutto stanco, sotto un faggio,
lascianno quer po’raccio sotto ar fico.

Poi aggiunse, respiranno quella brezza,
come volesse fa’ ‘na riflessione:
«Non sempre chi te bacia, t’accarezza,
te fa ‘n piacere… t’ama con passione,

lo fa perché lo sente, sta’ tranquillo.
Nun te scorda’ che l’omo è opportunista,
e prima o dopo te fa fa’ lo strillo.
Questo perché c’ha er core… da buonista!»

E in mezzo a ‘sto casino e… tante sole,
la terra, l’astro, con la luna appresso,
ripresero lo posto… c’altrui vole,
col …… rotto, solo del più fesso!



Er presepe de quest’anno

«Se s’è pentito er Papa, ch’è tu’ zio,
d’ave’ fatto ammazza’ tanti po’racci,
perché nun parli co’ tu’ padre Iddio
de darse ‘na carmata e ripensarci…?»

Disse er somaro ar Bambinello in fasce,
mentre che lo scaldava co’ la vacca.
«È vero che anche a te t’ha fatto nasce’
dentro ‘sta grotta e in mezzo a tanta cacca!

Pe’ via de la giustizia universale
inventata da lui, l’Onnipotente,
decidenno de facce tanto male,
de facce tribbola’… puro pe’ gnente.

Tutto pe’ via de quella mela intera
che l’omo se magnò, in sua insaputa,
facennose caccia’ da dove d’era
e urlando alla signora… “Sei fottuta!”

Capirai se che danno aveano fatto!
Er posto era stracolmo de quei frutti!
Per questo, quer po’raccio ebbe lo sfratto
facennose poi odia’ quasi da tutti…!»

Quanno fu granne, er po’ro piccoletto,
s’aricordò de quella osservazione.
Se mise a strilla’ forte dar parchetto,
s’enventò, pe’ su’ padre, un’orazione…

Je disse ch’era granne, ch’era immenso,
che je voleva bene, che l’amava,
che l’idee de quer ciuco aveano senso,
de meditacce sopra… se j’annava.

La risposta ‘n se fece aspetta’ tanto.
Er padre nostro, liggio alla giustizia,
incominciò a pensa’… e poi pe’ vanto,
trovò ‘na soluzione… co’ malizia.

Pe’ redime’ dell’omo l’azionaccia,
Er massimo se fece assai crudele.
Fece appicca’ su’ fijo a ‘na crociaccia
facennoje ingoja’ l’acqua cor fiele.

«Devi sape’ che, er Papa, è abbituato
a piagne, ride’, e nun è vero gnente.
Dice che non è lui ch’ha scucuzzato…
quelle po’re capoccie de la gente.

Lui guida la politica da anni,
in nome de mi’ fijo, prediletto,
s’è gonfiato… co’ tutti quelli panni,
s’è divorato solo… che filetto.

Artro che mele, de quei due po’racci!…
Questo me s’è magnato er monno intero.
All’artri j’ha lasciato solo stracci
e adesso dice che nun è più vero.

Quindi lassamo sta’, dije ar somaro,
sia comprensivo e non faccia er mulo!…
Nun je pare che quello ha fatto er baro
e a me, pe’ questo, me ce rode er culo?…

Se ho sacrificato er fijo mio,
ve vojo arricorda’ ch’era importante,
ve vojo fa’ capi’ che era un Dio
e non un ciarlatano dilettante.

L’ho fato secco pe’ redime’ tutti.
Mijoni de mijaia de mijoni
de dolori ha patito, li più brutti,
ma voi rompete sempre li cojoni…

Quindi ve devo sempre aricorda’
che se soffrite… è la bontà infinita!
Evitate de famme ‘n po’ incazza’,
sennò, pe’ tutti, è bella che finita.

Li peggio terremoti, so’ cazzate!…
Li maremoti? Poco più de gnente!
L’acqua dar cielo arriverà a cascate
affoganno ogni sito, co’ la gente…»

Er somaro, sentenno ‘sto rimbrotto
de quello che comanda più de tutti,
da la paura se la fece sotto,
e cominciò a trema’… da li presciutti.

«Che tremi?», sospirò dar posto sua
er Bambinello co’ la mano arzata.
«Tu te devi da fa’ li cazzi tua,
specie co’ ‘na creatura appena nata.»

E s’arimise a dormi’ sopra la paja
tra li soffi der bue e l’asinello,
aspettanno li magi su la soja,
speranno che ‘sto monno sia più bello.

Sognò un pianeta tutto colorato,
‘na terra fatta tutta come prima,
co’ l’arberi de mele, i fiori, er prato
e la cosa più bella… ch’è la stima.

Sognò poi tanti fiori, fatti a mazzi,
un omo sempre bono e sempre umano
che se faccia, pe’ prima, i propri cazzi
dannose sempre più che de ‘na mano.

Sognò li ruscelletti cristallini,
le case tutte fatte de bambù,
le galline, i coniji, i regazzini,
la fine dei complessi e dei tabù.

Infine se sognò un gran vulcano
che buttasse la robba pe’ magna’,
in modo che sfamasse er monno sano
e che l’omo ‘n se possa più lagna’.

Ma er sogno finì presto, su la paja.
Er bue, de soffia’, s’era stancato,
er somaro che raja, raja e raja
svejò quer Bambinello appena nato.

Così finì er presepe de quest’anno,
co’ li pupazzi fermi e non in moto.
Le case so’ distrutte dar gran danno
che j’ha causato er santo teremoto.

E come il pugil gonfio de cazzotti,
con le ferite agl’occhi, al naso, al mento,
soride, anche se pieno de cerotti,
così fa l’omo, dopo un gran tormento,
alza lo sguardo al cielo e inebetito
se mette a strilla’ forte… “So’ contento!”…



All’amico filosofo, Franco Innamorati

Così Franco, er filosofo nostrano,
dipinse con parole alla Botero
er piede der bambino francescano
che stava nel presepe… con mistero.

Dice: «Se guardi le cicciute dita
del bambinello piccolo e divino,
te pare de vede’, senza fatica,
li spicchi d’un succoso mandarino

che insieme ai fichi secchi, pe’ Natale,
te li magnavi con delicatezza
mentre la neve, sopra il davanzale,
col fuoco te portava la bellezza.

Allora c’abbastavano ‘sti fatti
pe’ vive’ in mezzo la naturalezza.
Oggi, sei governato da li matti.
E la neve che d’è?… Solo monnezza.»



Er sarto cacciatore

Ovvero: Attilio De Santis (l’amico mio)

Er sarto cacciatore berfiorese,
ammaestrator de cani assai de razza,
viene da Caraceni er milanese,
quello che veste puro… ‘na ramazza.

Vive in mezzo a ‘na macchia inviperita,
tra cani, gatti e puro con la moje.
‘na strada ‘nciottolata va in salita,
tra canti de pollastri, merli e puje 1.

Dentro casa, er fijo de Diana,
tiene trofei, medaje e servaggina;
cuce vestiti freschi o misto lana
mentre che starne e quaje te cucina.

Quest’omo ha fatto puro er cacciatore,
oltre che frequentar li sarti esperti…
tanto che dice proprio da sartore:
«Voi nun siete vestiti, ma coperti.

Se deve da sapere, amico caro,
ch’anche se l’omo è tassu 2 come tanti,
io te trasformo questo… pecoraro
in manichino con cappello e guanti.

Certo che lu campanu da lu porcu 3
je se p’ò mette’, ché non è proibito.
Ma non se p’ò addrizza’ 4 chi è natu stortu 5
e non capisce che vo’ di’… vestito.»

Concluse allor, in modo dialettale:
«Lu cacciatore nun veste da mammocciu 6,
perché cuscì 7, se s’è vestitu male,
pare in mezzo lu campu 8… nu scartocciu 9

Note di dialetto folignate:
1. poiane
2. tasso, cafone
3. la campanella al maiale
4. raddrizzare
5. nato storto
6. spaventapasseri
7. così
8. al campo
9. pannocchia di granoturco



XXXV° Canto dell’Inferno

Girone dei Super Senior

«La vostra vita in su più non vedrete…»
disse la Tre a quei vecchietti arzilli
chiamati Super Senior dalla Rete.

«È inutile che fate tanti strilli.
Considerate la vostra senenza,
togliendovi dal capo… tanti grilli.»

E quelli allor, con giusta reattanza,
risposero eseguendo, quasi sbronzi,
l’universale inno… della panza.

Che se compressa, con dosati sforzi,
rombando fece uscir vento soave
accompagnato da sublimi… «A stronziii!»

E come con le mine nelle cave
saltar fassi la roccia con violenza,
così reagirno le lor panze… brave.

Ché se all’inizio fu sol flatulenza,
tosto seguì pernacchio tremolante
appresso poi a… scurreggia, con essenza.

L’olezzo che sfuggì dalle mutande
salì formando fantozziana nube,
che piovve merda sempre più abbondante

su quella costruzione che nell’Urbe
nomossi nazional televisione,
piena di stesse facce, ricche e furbe.

Giusta fu certo questa punizione
di quelli che gran tempo furon chiusi
senza futuro né retribuzione.

Minosse allor, rivoltosi agl’intrusi,
intonar fece con più fantasia
l’inno che fu di quelli già reclusi.

«Volete far teatro? E allora sia.»,
disse dopo che la canzone era finita.
«Li personaggi però… so’ cazzi mia!

Certo che qui non c’entra più la vita…
Farò ‘n appello quasi irriverente,
visto che per voi tutti è già sparita.»

«MILENA… la sfigata…» «So’ presente!»
«IVANA… la burina…» «Che cazzo v’oi?!»
«SALVO… il musicista…» «Sono assente!»

«GIULIANA… femminista…» «Son tra voi!»
«ALDO… detto Brunetto…» «È carcerato!»
«LUCIANO… er ballerino…» «Sta co’ noi!»

«LUISA… smemorata…» «N’ha aspettato!»
«GEPPINO… er Generale…» «È sugli attenti!»
«ATTILIO… quel saccente…» «Se n’è annato!»

«LILIANA… più che Osiris…» «È tra i presenti!»
«FRANCESCO… detto il guappo…» «Sungo qua!»
«ANTONELLA… da Messina?…» «È fra gli assenti!»

«MIRA…» «Chi, l’angelo custode? Nun ce sta!»
«Quaggiù all’inferno l’angelo so’ io,
che l’anime, se posso, fò danna’.

Per questo, allora, pagherete il fio,
visto che m’è scappato in Paradiso
Salvo, c’ha preferito sta’ co’ Dio.

Quanto ad UGO… detto pur l’intruso…
manco lo chiamo, visto ch’è ‘ncazzato
e a donna Rai trattava a brutto muso.

Adesso basta!», disse più adirato
er diavolo toccannose ‘na tetta.
«M’avete rotto er cazzo…», e s’è sdraiato.

Quindi, con tanta calma e senza fretta,
insieme e tutti in cor, e senza smette’,
fecero dello cul tromba e trombetta.



Il peccato originale

secondo Hugo

Non certo contraddirti è mia intenzione,
specie se della Bibbia si disserta…
Ma ritenendo questa l’occasione

che ragionar più chiaro viemmi offerta,
puntualizzar vorria subitamente
versione che di certo è più corretta.

In primis fu il nerbo certamente,
di forma quasi uguale al serpentello
generator di tanta umana gente.

Tosto… venne chiamato pur uccello
chi, come quello, stava pendolando
infra l’arti inferiori del modello.

Fu allor che l’architetto, quasi urlando,
inventò con tre fori la compagna,
che vulva, ano e bocca andò nomando.

A questo punto, onde evitar la lagna
di quello col serpente che oscillava,
precisò: «Con la bocca lei ce magna.

Non t’azzardar de metterce la clava!»,
aggiunse con dialetto romanesco.
Ché quell’azione proprio non j’annava.

«Poi, se lo metti dietro… starai fresco.»,
aggiunse col vocione patriarcale.
«Questo non è cristiano ma moresco.

Te resta solo er foro vaginale
pe’ mette’ a mollo quel serpentuccello,
onde godere dell’amor carnale.»

Adamo chiamò l’omo col pisello,
così che l’altra, Eva fu nomata
mentre sortiva fuori dal ruscello.

Vergine, liscia con nero capello,
si presentò al compagno frastornato
che rispettò il dettame già di quello.

Ma tosto che lo cul ebbe notato,
formato pesca oppur di grande mela,
fingendo come d’essersi sbagliato,

drizzar fece quell’albero sen’ vela
che seguendo lo vento di ponente
l’obbiettivo centrò senza cautela.

«Ahiii…», la voce di colei che primamente
conobbe delle chiappe il tremolare,
sotto quel martellare irriverente.

Un urlo lungo, assai particolare,
emise la gaudente Eva nostrana,
come sopran che l’usa nel cantare.

Così che per bloccar la voce strana,
Adamo le tappò la bocca aperta
col serpentello di natura umana.

Quando che a questo punto fu scoperta
l’azione godereccia di quei due
dal Padre eterno con la porta aperta,

che nel veder le creature sue
in quella posizione innaturale
incazzossi ‘sì tanto quale bue.

E credendo che quella, per via orale,
volesse gonfiar l’omo e ingigantirlo
tanto che quello suo non fosse uguale,

strillo dall’alto, proprio p’ammonirlo:
«Io come me t’ho fatto, gran cretino.
Più grosso sei diverso… manco a dirlo.

Tre peccati hai commesso, libertino:
non m’hai ubbidito, j’hai spaccato il culo,
per concludere, ahimè, con un pompino.

Testardo sei stato com’un mulo.
Adesso pagherai la penitenza
per colpa del serpente assai padulo.

Così da quest’istante, in mia presenza,
dopo d’aver finito col sollazzo,
beccateve per sempre ‘sta sentenza:

tolto che dalla bocca avrai lo cazzo,
tu, donna, parlerai continuamente,
arrecando a quest’uomo gran strapazzo.

Dandogli il culo tuo serenamente,
Adamo perderà lo suo cervello,
tanto da farlo usci’ fuori de mente.

Per la disubbidienza dell’uccello,
piangerete soltanto, sanza riso,
vagando per lo mondo senza ostello.

Cacciar dovrovvi dallo Paradiso.
Andrete assai lontano col cammino,
senz’acqua e poco pane condiviso.

Or solo in fondo, dietro il pino,
visto che so’ bontà infinita assai,
Eva potrà finire quel pompino.»

Così finì la storia del serpente,
ch’altro non era il pene del modello
che dopo il fatto fu subitamente
detto per prima cazzo oppur uccello.

Eva divenne lesbica, lui frocio.
Li fiji cominciarono a drogasse…
Si cerca tanto l’omo che sia macio
e femmina che pippa gli facesse.

Del serpentello questa è storia vera,
ché più d’Eva fu Adamo il libbertino.
Se fece cacciar fuori quella sera
solo pe’l gusto di quel gran pompino.

O uomo, come allor rimasto porno
in mezzo a ‘sto casino e tante beghe,
meglio sarebbe stato se quel giorno
te fossi fatto, solo, tante seghe.



‘na cagna femmina

Nel giorno tredici giugno zero nove,
col caldo che seccava lo cervello,
un professore volle fa’ le prove
de fa’ sentì alla lupa… un bel pisello.

Lasciò la compagnia dei commensali,
il pranzo, le leccornie e tanti vini,
tante risate e note musicali
sonate da quei tre, a lui vicini.

Partì de corsa e disse: «Devo corre’.
La lupa sta arrapata… vo’ scopa’.
Puro ‘sto pranzo me vo’ fa’ rinporre.
Che tocca fa’… La vojo accontenta’.»

Trattò, da casa, con un cane lupo,
de razza superiore… manco a dirlo,
pe’ fa’ ‘na cosa dorce, senza stupro,
senza violenza e manco co’ lo strillo.

Er lupo j’arispose… «Vieni a casa.
Adesso sto a dormi’… Fa troppo callo.
D’ossa e de scatolette c’ho ‘na spasa.
Me magno tre o quatt’ova e sarò un gallo.»

E così fece. Scese giù dal letto,
se fece er zabajone cor viagra,
se dette ‘na specchiata, pe’ l’aspetto,
magnò ‘na scatoletta… magra magra.

Quindi se lavò li denti con gran cura,
se dette ‘na leccata a li cojoni…
Strillava… «So’ de razza… razza pura!
Me sento forte, so’ carico d’ormoni.»

Se dette ‘na guardata nello specchio,
s’attaccò ar petto tante medajette…
Chiuse del water il solito coperchio,
dopo che s’era fatto… tre pugnette.

Disse: «So’ forte… ‘ndo’ sta la verginella?
Sbrigamose, je vojo da’ du’ botte…
La vojo fa’ ammatti’ ‘sta mignottella,
specie se s’è vestita da cocotte.»

Mentre diceva questo, er campanello
sonò tre vorte o quattro, fitto fitto.
Contro er malocchio se leccò l’ucello.
Nun abbaiò, ma stette zitto zitto.

E come la maîtresse del casino
ti presentava allora la compagna
ignuda, impro senza violenza e manco co’ lo strillo.fumata, sul triclino,
così quello lo fece… con la cagna.

Salì le scale con l’inguinzajata
che ad occhi bassi, in fronte a quel pastore,
je dette de sfuggita… ‘na leccata
dicenno ch’era pronta a fa’ l’amore.

Er pastore annusò la verginella…
La radio trasmetteva un ballo liscio
pe’ fa’ arrapa’ de più quella modella.
Ma quello rimaneva a… cazzo moscio.

Lei lo cercò, scodinzolò più ore.
Disse: «A cazzo de cane te comporti…
Vojo scopa’ e vojo fa’ all’amore
con maschi vivi e non co’ maschi morti.»

Nel mentre che scappava da la porta,
tenuta a corto dal padrone mesto,
quella, che pe’ la rabbia s’era rotta,
non j’azzannò un polpaccio per rispetto.

Ma appena fora, dette ‘no strattone,
stuccò la corda che c’aveva ar collo…
Se libberò de corsa dal padrone
pe’ fa’ mette’ al randagio il cazzo a mollo.

Er randagio non fece complimenti.
Je sartò addosso come fosse un toro,
l’azzannò sopra il collo con i denti…
Lei disse con gran gusto: «…e daje, moro!»

Er cane nero nero e brutto tanto
rimase appiccicato per du’ ore.
Poi se buttò per terra con gran vanto,
per esser soddisfatto… con onore.

A tempo giusto, la cagna otto ne fece.
L’ostetrico? Fu proprio il professore.
Erano brutti e neri, come pece.
Ma certamente fiji dell’amore.

La madre li guardò, li leccò tutti.
S’accorse ch’ereno cani bastardoni…
«Ma che me frega a me come so fatti.
L’importante che c’abbino… i cojoni.»

E aggiunse a ‘ste parole sacrosante,
come volesse facce ‘na morale:
«A me m’ha soddisfatto in quell’istante.
E che me frega se m’ha fatto male?

Fasse fa’ male dar cane dotato,
senza blasone ma… nero de pelle,
è mejo de quell’artro presentato
con tanti pittgrì… ma senza palle!

Nun servono ducati e marchesati,
stemmi, timbretti, firme e medajucce.
Li maschi hanno da esse’ assatanati
e non spompati, privi de cartucce.»

Detto questo, rileccò la prole,
se l’attaccò alle zinne con amore.
Fissa volle vede’ calare il sole,
col pensiero al bastardo… scopatore.

Così è fatta la femmina a ‘sto mondo…
Pe’ lei l’amore?… È ‘n fatto naturale.
Er maschio se lo sceje, e in fonno in fonno…
fa bene assai: pur’essa è ‘n animale.



Il Valfo

Il Valfo c’ha le corna e sa de pesce
e proprio su youtube s’arinfrasca.
Ma quando sfonga e tiene il piscepisce,
strombazza un poco e sgrulla il nascanasca.

S’è floscio, il Valfo è pieno di grumigna
e alquanto stronfio, sgonfio e sfallulento.
Se sgnaffa e sdurce, l’oculo sgraffigna;
se sbotta, se lo liscia disliquento.

Eppure il giangiacquesco risoluto
che sficca, sporchia e stromba nei sprolazzi,
sgricita lentamente e sta cipputo.

E con la sciorda, iallica e smerdazzi,
sgurregghia purulento e poi zolfuto,
t’abbiocca, ti sporcacchia e tu t’incazzi.



All’amica Daniela… in pensione

Dopo che so’ passati quarant’anni,
diciamo de lavoro non stressante,
arriva er giorno, assieme a li malanni,
che ufficio lasci e cerchi ‘na badante.

«S’adesso libbera me sento
è perché la mattina, a la stess’ora,
la sveja, con il solito tormento,
dar letto caldo non me butta fora.

Così posso dormi’, posso sognare…
Me pijo, piedi a terra, un buon caffè;
posso manna’ affanculo chi me pare
e se me va, me faccio pure un tè.

Poi, tra la schiuma dell’idromassaggio,
la pelle me rinforzo… ch’è ‘n po’ secca.
Uso ‘na crema ad alto dosaggio
d’alghe, che la protegge e non la spacca.

Finalmente me posso annebbia’ casa
fumanno e rifumanno a più non posso.
Un Negroni me faccio, che me stasa;
rifumo ancora, senza alcun rimorso.

Ah, mo s’è fatta l’ora de magna’…
Oggi m’andrebbe… la trippa a la romana.
E vojo a squarciagola ricanta’
quell’aria che me piace e ch’è nostrana.

Fior de limone…
Er monno è tanto bello quando canto…
e de ‘sta situazione me ne vanto.
Fior de limone…

Fior de gardenia…
Me vojo ‘mbriaca’ con l’ossobuco
e puro con la trippa fatta ar sugo.
Fior de gardenia…

Fior de gaggia…
Me vojo magna’ pure la pajata,
le puntarelle, l’alici e l’insalata.
Fior de gaggia…
Dopo d’ave’ magnato e canticchiato,
me faccio un ber Cognacche cor caffè.
Metto un disco de… Zero Renato,
ripetendo a me stessa: “Embe’, che c’è?”.

Forse è mejo che vado a la toletta…
a sistemarme er trucco… Non lo sai?
Io so’ ‘na femminista assai corretta,
e quella robba… non la faccio mai.

Mo, tutt’acchittata, co’ l’amiche,
me vado a fa’ ‘n giretto in via Condotti.
E così come fanno le strafiche,
famo le spese matte co’ li botti.

Pijamo quindi er tè a Piazza de Spagna.
Du’ passi per via Veneto è pur d’uso…
Al Barberini, er cinema, è ‘na lagna,
mentre ch’er Metropolitan sta chiuso.»

A ‘sto punto non resta ch’anna’ a casa,
cena’ di fronte la televisione.
De piatti, in giro ce ne so’ ‘na spasa…
er letto è fatto senza precisione.

A mezzanotte, dopo ave’ fumato,
te ficchi dentro er letto, quasi sfatta;
chiudi la luce, dopo ch’hai ‘ngojato
la pasticca per chi… poca n’ha fatta.

Se je la fai a dormi’, te sognerai
quella ch’è stata la tua prima cotta.
Tante amiche ed amici cercherai,
compresi puro… i fiji de ‘na mignotta.

Er giorno dopo sarà sempre uguale,
li giorni passeranno de gran fretta…
Quarche vorta, de notte, starai male,
con l’acqua calda dentro la borsetta.

A questo punto, Daniela cara,
rimpiangerai quell’anni co’ la FAO.
E s’allora la vita è stata amara,
oggi te farai, sola: “Maramaooo!”.

MORALE:
P’ave’ riposo, famo ‘n gran casino;
quanno l’avemo, questo nun ce piace.
L’omo che se riposa… è suo destino
trova’ n’artro lavoro e… dasse pace.



Er nome mia… “Ugo”

Quanno che venni ar monno, all’ospedale,
mancanno alla famija un nome altero
– c’è chi diceva: «Chiamalo Pasquale»,
chi “Gennaro”, chi “Eusebio”, e certi “Arziero” –,

fu allora che mi’ padre disse a mamma:
«Visto che non c’avemo fantasia,
e come maschio certo n’è “Susanna”,
sentimo er frate grosso giù in corsia.»

E quello, né nostrano né italiano,
visto che mi doveva battezzare,
si comportò da vero americano
ed “Ugo”, breve nome, volle usare.

De secondo de nome fu “Giovanni”,
come quell’ospedale si nomava;
er terzo fu “Vincenzo”, che i malanni
la monaca diceva che levava.

Così “sant’Ugo” fu d’aprile il primo
vescovo, pe’ pija’ per culo tutti.
Chi m’affibbiò ‘sto nome era rabbino,
col gusto degli scherzi belli e brutti.

Grazie, frate Robert… l’americano.
Er nome è assai appropriato al personaggio…
Me pare un nome vero, un nome sano,
allegro, corto, svejo, giusto e saggio.

Ma ‘n difetto quest’Ugo certo aveva:
era testardo quasi come un mulo.
S’avea ragione?… Non te perdonava,
lanciandoti con gusto… un vaffanculo.



So’ cazzi mia

Liberamente ispirata a “My way”

Se la morte s’avvicina
e cala il sipario
…so’ cazzi mia.

Amico, vuoi che te lo dica
chiaramente?
In questa situazione
…so’ solo cazzi mia.

Se ho avuto rimorsi
e pochi rimpianti
…so’ cazzi mia.

Se ho fatto quello che ho fatto
ed ancora campo,
è perché
…me so’ fatto li cazzi mia.

Se ho amato, riso e pianto
…so’ cazzi mia.

Se ho avuto delle sconfitte
e delle soddisfazioni
…so’ cazzi mia.

Se le lacrime si sono fermate
…so’ cazzi mia.

Se trovo tutto divertente, è solo perché
…me so’ fatto li cazzi mia.

Se devo dire le parole
che davvero sento
…so’ cazzi mia.

E non quelle di chi s’inginocchia
…facendosi li cazzi sua.

Un giorno la storia dimostrerà
che ne ho prese tante
pur facendomi
…li cazzi mia.

E che troppi sono stati quelli che
…nun se so’ fatti li cazzi loro.

Allora…

To think I did all that;
and may I say – not in a shy way,
“No, oh no not me,
I did it my way.”

E cioè…

“So’ solo che cazzi mia!”



La vera storia di quel… “vaffanculo”

Ovvero: la puntata di Super Senior “Questa casa non è un albergo”

Du’ donne più che super, con dolcezza,
forse ripetitive per vojantri,
chiedono a quello, con naturalezza,
de rivede’ er copione de nojantri.

Questo, con tono più ch’imperativo,
che s’addice a chi è del tutto maschio,
rispose con un far definitivo:
«M’avete rotto il cazzo! Io so che faccio.»

E sventolando un foglio, assai sicuro,
ch’era er copione suo già da du’ mesi,
non fece altro che manna’ affanculo
chi sosteneva invece ‘n’artra tesi.

Io, che fin qui ‘n avevo mai parlato,
ripresi la difesa delle donne.
Ma quello, sempre più maleducato,
con isteria marcata m’arisponne:

«Ueh, Ugo…» – affatto con cadenza romanesca –
«Sappi ch’io son regista a San Vittore!
Sa’ che ti dico allor, prima che esca?
M’hai rotto il cazzo anche tu, proprio di cuore…

E visto che difendi le due stronze,
tanto che so’ testarde come un mulo,
se io ripeto a loro che sono sbronze,
ripeto pure a te… ma vaffanculo!»

Quest’è la verità sull’accaduto,
il resto so’ montaggi rimediati.
Certo la reazione, è risaputo,
è stata quella d’Ugo Innamorati.

Quanto all’intenditrice televi… sora,
credo d’aver risposto nel filmato.
Questa non c’era proprio quella sera…
e quel che dice è solo ch’inventato.

«Ma… che volemo fa’?», ripeto mogio.
«Ognuno in libertà dà via il culo.
Ma se je dici poi che quello è frocio,
con isteria risponde… vaffanculo.»



Tramonto Policlinico

Quanno er sole al tramonto rosso rosso
scompare dietro i pini e scappa via
te dice che tra poco, giù da basso,
sale la sera piano e pe’ la via
risuonano le voci e in lontananza
sempre meno le senti… e così sia.

Poi la notte in silenzio cupa avanza
p’ esse’ ‘gnorantemente violata
da ‘n ‘omo che se scarica… la panza.



L’homo erectus… “da quando sei andata via”

Se li festini l’hanno fatti i papi,
li cardinali, i re, l’imperatori,
principi, baronesse e tanti capi,

l’operai, i becchini e li signori,
li papponi, le escort co’ li preti,
le monache coi frati anche minori,

e tanto tempo addietro anche lo yeti
je dava sotto e ‘n se scandalizzava
se doveva coprirne venti in piedi,

e l’impiegato come s’arrazzava,
che pure co’ li fiji e la consorte,
quella ch’era ‘na colf strombazzava,

e l’avvocati, i dottori, le mignotte,
l’architetti, i piloti, i pescatori,
i giudici, onorevoli de corte…

Insomma tutti quanti con l’onori,
uniti a presidenti e deputati,
e pure li notai e consigliori;

così li froci, di giovani affamati,
le lesbiche che cercheno le vergini,
i trans prestanti, sempre ben pagati.

E che ne dici de quelli che ‘n so’ sani?
Li carcerati, l’attori con l’attrici,
i giornalisti, i registi, i ciarlatani…

E ‘n se capisce ancora, cari amici,
perché facenno tanto i puritani
dovemo rinnegar nostre radici.

Ché puro Adamo ed Eva ereno strani…
E p’ esse’ tali er paradiso han perso,
lasciannoce però ‘st’atti nostrani.

Se guardamo dei Greci l’universo,
er presidente Giove ‘n era un santo…
se a scopa’ tante femmine era immerso.

Anzi, de questo se faceva vanto.
Così che la Giunon, moje de vita,
scopava puro lei di tanto in tanto.

Quindi dovemo faccela finita:
ognun di noi vol’esse’ puritano…
poi va co’ ‘n’antra se la moje è uscita.

Idem questa, allor, con fare strano.
Per centomila e più se spoja tutta…
e addio santa onestà col deretano.

La vita è questa, lasciamo ‘sta combutta…
Ognuno usi la fica o li cojoni
così come se fa dopo la frutta.

Tutti vorremmo esse’ Berlusconi…
Anzi, con falsità lo semo tutti.
Ma senza fregne e senza li mijoni.

Lassèmo allor che femmine e maschietti
se guardino li film tanto porno
mentre se fanno… un piatto de spaghetti.

E quando lei te offre carne al forno,
tu co’ ‘sta musichetta quasi samba,
bevenno un bicchierino di Saronno,
sarai berlusconiano… e non un bamba.



Cekappe

Pasticche, capsuline, sfragnipanza,
gocce, cremine… poi quarche supposta.
E gente ch’entra ed esce dalla stanza.

Quindi chi t’arigira e t’arisposta,
te bussa, te misura la pressione,
te guarda l’occhi… e come se non basta,

martella le ginocchia con passione,
poi le palle de sotto sposta e attasta.
E tanto pe’ conclude’ la questione

te mette er dito ar culo, che ‘n te gusta,
te fa caca’, piscia’ sotto pressione,
te leva er sangue… e poi te dice «Abbasta».

«Domani fai la T.A.C., e in conclusione
er clisma opaco e poi la risonanza,
l’elettrocardio… in più de precisione.

Dopo, se senti ancora er mal de panza,
te famo un bel clistere a vasellina,
così scureggi forte con costanza».

Se pensi sia finita ‘sta manfrina,
manco pe’ gnente: p’ artri sette giorni
tu devi da segui’ ‘sta disciplina.

Questo l’inglesi chiameno cekappe…
Mejo chiamallo allora alla romana:
rottur de palle e pur rottur de chiappe.

Letta ‘sta poesia, colui che infilza
fece come Ciran che tosto tocca.
E col fioretto… me staccò la milza.



“L’Osservatore… Romano” al Policlinico Gemelli

William scriveva, quarche tempo addietro,
che quanno nel dolor s’hanno compagni,
le sofferenze te le butti dietro.

Certo che de salute ‘n ce guadagni…
Soffri lo stesso, ma te pare vero
d’allontana’ per poco li malanni.

A me sembra però, senza mistero,
che tanti amichi che te fanno forza
c’hanno li cazzi loro nel pensiero,

cosi come se fossero sgamorse
che con latte de bufala so’ fatte:
oltre che sciape e flaccide, so’ mosce.

Mejo star solo, allor, quanno la sorte
te rompe er cazzo oppur te fa star male,
senza nessuno… e manco la consorte.



Er vecchio illuso

Ieri ho ‘ncontrato, mentre passeggiavo
lungo quel corridoio (ereno due…),
un omo vecchio co’ ‘na donna-schiavo.

Lui camminava piano come un bue;
l’altra, bruttina, secca e senza chiappe,
je stava appresso stanno su le sue.

Er vecchio, che portava le ciabatte,
strisciava li su’ piedi piano piano,
mentre la paracula, co’ le scarpe,

strigneva a quello, oltre che la mano,
la cintola abbottata e tanto gonfia
che strombettava forte e poco piano.

Sull’altra mano, ch’era sgonfia sgonfia,
quella tenea ‘na carta co’ la penna,
accennando ‘n sorriso co’ la smorfia.

Diceva: «Quanto me vole bene ‘sta madonna!
M’abbraccia, me sostiene, poi me ‘mbocca,
me tiene ‘sta bottija co’ la canna…

Se devo da magna’ m’apre la bocca,
nel pappagallo mette ‘sta lumaca:
che m’ha da fa’ de più ‘sta po’ra cocca?».

«Gnente», je dissi co’ la voce vaga.
«Sta’ attento, ‘n t’aggrava’, ch’in un momento
quella deventa come che ‘na maga.

E prima che tu piji er sacramento,
te lascerà la mano che tenea
pe’ fatte firma’ tosto… er testamento».



Crinis pubis

Ovvero: tira più un pelo di fica che centomila cavalli (amarcord dei casini…)

Quanno che le mignotte ereno nostre
più che del mare attorno dell’Italia,
o governanti, furon puro vostre
quelle che van per strada in carzamaja.

Allora se chiamaveno casini…
oppure case chiuse, pe’ i più dotti.
Cacciavi sempre i soliti quatrini
pe’ passacce mezz’ora co’ li fiocchi.

M’aricordo che quanno co’ l’amichi
facevi sega a scola la matina,
te le giocavi co’ li dadi antichi
insieme a pane, cacio e frittatina.

Facevi ‘na colletta fra sett’otto,
compreso quell’amico detto Meo,
ch’er vincitore che je dava sotto
dovea portaje un pelo pe’ trofeo.

Un giorno che ‘n c’aveo le sigarette
usai quei sordi giù dal tabaccaro.
Salii su a casa delle sirenette
col cazzo ritto più che de ‘n somaro.

A buffo me la feci… m’aricordo,
visto ch’ero ‘n cliente affezionato.
Ma nun potetti chiede’, senza soldo,
un pelo per l’amico nominato.

Così me torzi un pelo da me stesso,
anzi ne levai due, per abbondare.
Je li portai parlandogli sommesso,
tanto per farlo subbito arrapare.

Questo se li magnò senza pensacce,
ch’era ‘n afrodisiaco j’aveano detto…
S’aritrovò ‘na mignotta tra le bracce,
co’ la capoccia sua de dentro ar petto.

«A moro!… Daje, sbrichete, fa’ presto.
Forse perché ‘sta vorta non j’ho dato
all’artro amico un pelo come resto
non je la fai e non me stai ‘ngrifato?»

Quello, sentenno quella confessione
di quella mignottella… assai curiale,
ebbe de botto un calo de pressione,
tanto che se sentì piuttosto male.

«S’er pelo c’ho magnato non è tuo,
non riuscenno a scopa’ co’ te, Carlotta,
so’ certo c’ho magnato er pelo suo,
er pelo de quer fijo de ‘na mignotta.»

«Vedi…», je disse quella un po’ ‘ncazzata,
«sol’io te posso fa’ rizza’ l’ucello.
Quanno che ‘na persona s’è drogata,
è segno che ‘n ce sta più col cervello.

Che centrano l’intruj, peli, viagra,
estasi, cannabis, la cocaina…?
La vita, caro mio, lo sai ch’è sacra!
E tu la voi affossa’ co’ l’eroina?

Da’ retta a me, mignotta de casino,
che vengo controllata dal dottore.
Con me ce scopa principe e burino…
Certi, lo fanno pure… per amore.

Oggi stamo pe’ strada a culo nudo,
li papponi ce leveno li sordi…
Solo er preservativo ce fa scudo,
l’amore s’è ridotto… fuggi e mordi.

Questa è l’evoluzione della legge…
Er nostro e vostro unico interesse
è quello che s’avemo da protegge’,
sennò morimo tutti… d’aidiesse.

Addio pe’ tutti, bei tempi passati,
quanno che a letto, con luce soffusa,
dopo d’avenne cento già scopati
te ne facevi ‘n artro alla rinfusa.

Oggi che voi fa’ più dietro ‘na fratta?
Col freddo, piove, nevica o fa caldo…
Sei una delle tante de la tratta
che ‘ncappuccia la minchia, detta fallo.

Grazie, Merlin, de questa legge vaga.
Nun t’embriaca’ de più co’ tanto vino…
Trasfòrmate in Merlino, fa’ la maga,
e facce ritorna’… dentro ar casino.»



L’uso dell’airpreservativo

All’amico Andrea, pilota

Er gran pilota Andrea dà la poccia
ar fijoletto nato al Sangiovese.
Certamente anche questo sarà roccia,
tanto che lo chiameno… cretese.

Questo è il secondogenito, pantese,
e “nono re de Roma” l’ha nomato.
L’“ottavo” è solo nato l’altro mese,
e come quello non l’ha battezzato.

Annalisa, non moje, poveraccia,
ormai è ‘na catena de montaggio.
Certo che con ragione je rinfaccia
de ‘n fajene fa’ ‘n artro… fino a maggio.

«Li fiji, Andre’, so’ belli, ed in famija
vargono più de l’oro e dei mijoni.
Se adesso tu, però, chiedi ‘na fija,
sappi che me so’ rotta li cojoni.

L’amore, amico caro, è bello assai.
Tu giri er monno ed io so’ come un mulo…
Vojo ditte ‘na cosa che non sai:
tu giri e fotti, ed io me faccio er culo.

Adesso te do io… la check lista:
controlla bene prima dell’arrivo,
stacca l’autopilota e scopa a vista,
e indossa sempre l’airpreservativo.»



Il “multiuniverso”… de Franco

Er filosofo Franco è ‘no scienziato
e de li versi è pure luminare.
«La pura ricerca», ha constatato,
«è quella che fò io, ma che me pare.»

Giustamente lui osserva, con il verso,
e astrologia e astronomia t’afferra;
così che quando guarda l’universo
dice che ‘n semo soli su la Terra.

La teoria me pare fosse giusta…
La Chiesa ‘sto concetto l’ha sommerso.
Quello che dice lui… certo me gusta,
e credo anch’io a ‘sto “multiuniverso”.

Se famo al naturale ragionare
er cervello d’ognun essere umano,
si può sicuramente constatare
‘sto concetto, per me, lapalissiano.

Quello che noi c’avemo nel cervello
è robba vera, robba genuina…
è robba che se trova nel cestello,
come che l’acqua pura e la farina.

Se però li politici e scienziati,
teologi, filosofi… ciarlatani?
ce li fanno veni’ tutti bacati,
tanto che pochi rimarranno sani,

ve vojo consija’ ‘sta formuletta
che, fresca fresca, in testa m’è venuta:
«Sta’ sempre attento, mèttete in allerta
da chi te dice, in piedi, ch’è svenuta.

Il natural contenuto dei cervelli
è inversamente proporzionale, certo,
alla distanza che tu stai da quelli
che sopra t’ho citato… con rispetto?

Meno che stai vicino a quei soggetti,
più er cervello raggiona libberale.
Se t’avvicini tanto ai lor precetti,
perdi naturalezza… e te fai male.»



Ho aperto il cervello… e sono uscito.

Tu del poetar il gusto riprendesti
dopo tanto nevrotico riposo,
così che a me tu tosto rispondesti
con frasi dotte che più dir non oso.

 

Con tre terzine tu t’avventurasti
ad appoggiar lo mio concetto astratto,
che cogitando con neuroni guasti
parmi copiar d’Erasmo l’omo matto.

 

Una cosa però dev’esser certa:
che i bagherozzi neri, oppur neuroni,
entrando e uscendo dalla porta aperta
o diventan più saggi o più cojoni.
Date a Cesare quel che è di Cesare...